La dottrina Addai è un testo cristiano in siriaco, scritto nella seconda metà del IV secolo d.C. o nella prima metà del V secolo d.C. Narra la leggenda della fondazione della chiesa di Edessa e delle imprese di Addai, ovvero Taddeo di Edessa, secondo l'ottica di uno dei settanta discepoli di Gesù.
Tradizione vuole che il mitico re Abgar V, sovrano dell'Osroene, fosse affetto da una malattia incurabile.
Il re ebbe modo di sentire dei miracoli praticati da Gesù, e scrisse a lui una lettera, riconoscendone la natura divina, chiedendogli aiuto, e offrendogli asilo nel proprio palazzo.
il Messia rispose che non poteva predicare fuori dalla Terra di Israele, ma che avrebbe inviato uno dei suoi discepoli, dotato del suo potere, a seguito della sua ascensione al cielo. Addai giunge ad Edessa e guarisce il Re grazie ai poteri del Mandylion, il panno sacro su cui era raffigurato il volto del Cristo. Abgar si converte così al Cristianesimo, insieme a tutta la città di Edessa.
Il carteggio tra re Abgar e Gesù è riportato da Eusebio di Cesarea nella sua "Storia Ecclesiastica" (IV sec d.C.): l'autore era convinto che gli originali in siriaco fossero conservati negli archivi di Edessa.
Nella seconda metà del IV secolo la leggenda connobbe un'evoluzione, includendo la notizia di un ritratto di Gesù fatto dal vivo. Pare che l'archivista della corte di Edessa, Hannan, avesse dipinto un ritratto di Gesù in occasione della sua visita; secondo questa versione, dunque, Gesù si era diretto a Edessa per rispondere alla richiesta del re.
La storia del carteggio, comprensiva del ritratto del Cristo, venne riportata integralmente, con qualche aggiunta, nella Storia degli Armeni di Mosè di Corene (metà del V secolo d.C.), che riferisce come il ritratto fosse conservato proprio a Edessa.
Nel 1441 Lorenzo Valla dimostrò che il carteggio era un falso.
Un ulteriore ampliamento è dato dal lungo discorso di Addai, che narra il ritrovamento della Croce a Gerusalemme e traccia un resoconto fedele, anche se incompleto, della situazione dei cristianesimo a Edessa nel IV secolo.
Il successore di Addai è Aggai il quale, prima di morire, chiese al proprio successore, Palut di andare ad Antiochia e dì farsi ordinare da Serapione (200 d.C.). Il racconto sottolinea che Serapione stesso era stato ordinato da Zefirino, vescovo di Roma e successore di Pietro.
L'intera narrazione, con al centro una guarigione miracolosa, arricchita da connessioni dirette tra la famiglia reale dell'Osroene e lo stesso Gesù, ha come scopo la legittimazione della conversione al Cristianesimo di questa terra, offrendo una narrazione altamente rappresentativa. Si viene a creare così una rete semiotica che legittima il culto cristiano.
La Dottrina di Addai, in siriaco. — Phillips, George, ed (1876). London: Trübner & Co. pp. 51–106
Passando da questo racconto leggendario alle testimonianze storiche della presenza di una comunità cristiana a Edessa, vediamo che esse non risalgono oltre il II secolo. Riassumendo i dati esposti dal P.I. Ortiz de Urbina, presentiamo, in ordine cronologico:
L'Iscrizione di Abercio (seconda metà del sec II), che contiene un’allusione alla presenza di una comunità cristiana nell'Osroene, cioè nella regione di Edessa. Abbiamo una conferma di ciò in Eusebio di Cesarea (HE V, 23,4), laddove riporta che, sotto il pontificato di papa Vittore I, la Chiesa di Osroene fece pervenire a Roma il proprio parere sulla questione pasquale.
Il testo della Cronaca di Edessa riguardante l'inondazione del 201.
Giulio Africano (†240 ca.) che , nella sua opera intitolata Kestoi o Ricami, dice di avere incontrato alla corte di Abgar IX, re di Edessa (176-213), un filosofo di etnia partica, chiamato Bardesane, esperto nel tiro dell’arco.
Lo stesso Bardesane il quale, nel suo Libro delle leggi dei paesi, offre una testimonianza esplicita della presenza dei cristiani ad Edessa, in Siria e persino nell'Impero partico e in Persia.
Si riporta, in traduzione, il testo del Cippo:
«Cittadino di una eletta città, mi sono fatto questo monumento da vivo per avere qui una degna sepoltura per il mio corpo, io di nome Abercio, discepolo del casto pastore che pasce greggi di pecore per monti e per piani; egli ha grandi occhi che guardano dall'alto dovunque. Egli mi insegnò le scritture degne di fede; egli mi mandò a Roma a contemplare la reggia e vedere una regina dalle vesti e dalle calzature d'oro; io vidi colà un popolo che porta un fulgido sigillo. Visitai anche la pianura della Siria e tutte le sue città e, oltre l'Eufrate, Nisibi e dovunque trovai confratelli..., avendo Paolo con me, e la Fede mi guidò dovunque e mi dette per cibo un Pesce (derivato) dalla fonte grandissimo, puro, che la casta Vergine concepì e che (la Fede) suole porgere a mangiare ogni giorno ai suoi fedeli amici, avendo un eccellente vino che suole donare col pane. Io Abercio ho fatto scrivere queste cose qui, in mia presenza, avendo settantadue anni. Chiunque comprende quel che dico e pensa come me, preghi per Abercio. Che nessuno ponga un altro nel mio sepolcro, altrimenti pagherà 2000 monete d'oro all'erario dei Romani e 1000 alla mia diletta patria.»